Eccidi dimenticati. Sperimentazioni a lungo negate, per lo più su bambini. Accanto agli ebrei, sono centinaia di migliaia le persone morte nei campi di sterminio nazisti. Alcune associazioni stanno provando a dar loro un volto e una voce
Aktion T4, Porrajmos e Omocausto. Hanno un nome, quelli che in molti definiscono gli Olocausti dimenticati. Disabili, rom e omosessuali sterminati durante gli anni del nazismo, grazie anche al ruolo svolto dai regimi fascisti collaborazionisti.
Spesso non hanno più un volto e una voce, perché furono in pochi a sopravvivere ai folli piani di sterminio messi in atto da Hitler e a poter, quindi, trasmettere quella Memoria, fondamentale per tramandare le atrocità commesse dall’uomo. Anche la matematica dell’orrore, quella che dovrebbe documentare e far comprendere nella sua brutalità numerica, con le cifre delle persone morte, la portata di questo sterminio, deve fare i conti con documenti fatti sparire o con (è il caso dei rom) l’assenza di una tradizione scritta. Oppure, come avviene per i gay, con la negazione della loro omosessualità, anche dopo la liberazione dai campi di concentramento.
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Anche i Testimoni di Geova furono perseguitati, tra il 1933 e il 1945 (diecimila internati, prevalentemente tedeschi): a loro veniva anche offerta – invano – la possibilità di rinunciare al loro credo religioso, in cambio della libertà. Olocausti che – come hanno fatto notare, non senza qualche polemica, alcune associazioni – si è spesso cercato di dimenticare. E sono proprio
le associazioni come l’Avi (per la tutela delle persone disabili), Arcigay e Gay Center, Opera Nomadi e Aizo (rom e sinti) ad aver organizzato, nella settimana della Memoria, alcuni eventi, in tutta Italia, per cercare di far conoscere, ad esempio, l’Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, in nome dell’igiene della razza cara ai nazisti, portò alla soppressione di almeno 70mila persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da malformazioni fisiche.
O l’Omocausto, che portò alla morte di almeno 7mila omosessuali nei campi di sterminio nazisti (oltre alle decine di migliaia di persone che vennero condannate sulla base del Paragrafo 175, quello che puniva gli atti e, persino, le fantasie omosessuali). E, infine, lo Porrajmos, che in lingua romaní indica la “devastazione”: furono più di mezzo milione i rom e i sinti morti nei campi di sterminio. I piani di sterminio degli zingari vennero attuati non soltanto nei territori annessi dal dominio nazista, ma anche da parte dei governi collaborazionisti, come la Romania e la Jugoslavia, che furono, insieme alla Polonia, tra i principali teatri di questa persecuzione. Ad Auschwitz erano rinchiusi nel tristemente noto Zigeunerlager, ed erano contraddistinti dal triangolo marrone. Come Barbara Ritter, cecoslovacca rom, scomparsa due anni fa. Una delle poche persone a raccogliere la sua testimonianza, durante un incontro che si è tenuto a Ginevra, è stata Carla Osella, presidente dell’Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi). A lei ha raccontato della deportazione nel campo, nel reparto dell'”angelo della Morte”, quel Josef Mengele noto per i suoi esperimenti medici e di eugenetica che svolse usando come cavie umane i deportati, anche bambini. “Barbara venne rinchiusa nel lager di Mengele, e qui sottoposta ad una serie di esperimenti. Le inocularono la malaria, per vedere se era in grado di guarire. Non morì, a differenza di tante persone, tutti bambini, che erano con lei”, racconta Osella. “Uno dei racconti più atroci che mi fece, fu quello che vide per protagonista un bimbo, ad Auschwitz. Per tenere buoni i bambini, Mengele era solito dar loro della cioccolata. Un giorno prese uno di questi e, proprio di fronte a Barbara, gli sparò, senza alcuna apparente motivo”.
Barbara assistette anche a numerosi tentativi di ribellione, da parte dei rom, nei confronti dei soldati nazisti. “La Ritter si salvò, perché, dopo essere stata trasferita a Buchenwald, riuscì a fuggire, mentre chi era rimasto ad Auschwitz fu ucciso”, ricorda ancora la presidente dell’associazione. Ma i racconti come questo sono pochi. “Non ho notizia, in Italia, di nessun rom sopravvissuto all’Olocausto, che sia ancora in vita – dice Massimo Converso, presidente dell’Opera Nomadi – E poi c’è il problema, a livello di trasmissione della memoria, dell’assenza di una tradizione scritta. I rom erano spesso analfabeti”. Mezzo milione i morti certi, anche se di moltissimi zingari si è persa ogni traccia, senza che si possa dire con certezza che siano stati uccisi dai nazisti. E questo potrebbe spiegare perché altre stime parlino di un milione e mezzo di morti. In provincia di Viterbo, a Blera, ne vennero chiusi una cinquantina in un campo di concentramento repubblichino, sconosciuto ai più. “Dal settembre del 1943 al giugno del 1944”, spiega Converso, che ieri, a Roma, ha preso parte alla tradizionale fiaccolata che ricorda i rom uccisi. Silvia Cutrera, a capo dell’Avi (associazione per la vita indipendente) è, invece, riuscita a intervistare il tedesco Friedrich Zawrel: classe 1929, venne internato nello “Am Spiegelgrund”, un ricovero, a Vienna, per bambini “disturbati mentalmente”, e che, sotto il Terzo Reich, fu trasformato in “centro dell’orrore”. Era considerato affetto da comportamento deviato, perché figlio di un alcolizzato non in grado di prestare servizio militare: in più aveva anche marinato alcune lezioni, a scuola. “Ha personalmente assistito agli esperimenti condotti sui bambini, ricoverati insieme a lui – racconta la Cutrera – Non venivano uccisi, ma si somministravano loro farmaci, per vedere chi riusciva a vivere più a lungo oppure per studiare le loro reazioni. Anche lui fu costretto a prendere medicine letali”. Dopo aver subito molestie e violenze, ha cercato di fuggire. Riacciuffato, è stato segregato per un anno in una cella di isolamento: è riuscito a salvarsi soltanto grazie all’aiuto di una infermiera.
Rosa era, invece, il colore del triangolo che indicava, nei campi di concentramento, gli omosessuali. “Le stime sui morti, in questo caso, sono difficilissime – racconta Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center – perché molti non volevano ammettere di essere omosessuali. Altri vennero portati nei campi di concentramento per altri motivi e, quindi, la loro omosessualità non emergeva”. “E’ una storia cancellata, la loro”, dice Porpora Marcasciano, presidente del MIT (movimento di identità transessuale) e componente del Comitato nazionale Bologna Pride 2012, “anche per colpa di quel pudore cattolico che porta a censurare determinati argomenti. E bisogna considerare che molti gay erano anche deportati politici e non avevano alcuna intenzione di dichiarare il loro orientamento sessuale, anche una volta liberati”. Tra i pochi – è forse l’unica, in Italia, a poter ancora ricordare quegli anni di persecuzioni – c’è la transessuale Lucy, che entrò nel campo di sterminio di Dachau come Luciano. E che, nel 2010, per la prima volta, è tornata a visitare il luogo dal quale è riuscita miracolosamente a salvarsi. Alcuni volti di omosessuali internati ad Auschwitz sono esposti, da giovedì, nell’ambito di una mostra, allestita a Roma, nella sede del Municipio XI, curata da Gay Center e Arcigay Roma, con il supporto della comunità ebraica di Roma e dell’Ucei. “Di Omocausto si è iniziato a discutere in Italia grazie a quegli studiosi, soprattutto tedeschi, che hanno sollevato il caso – osserva Aurelio Mancuso, presidente di Equality – Fino a non molto tempo fa, una ventina di anni fa, non si parlava affatto delle vittime omosessuali. C’erano anche difficoltà relative alle fonti e ai documenti”. “Bisogna poi ricordare quelle centinaia di persone mandate al confino dal regime fascista – aggiunge Mancuso – e che, comunque, rientravano nelle persecuzioni dell’epoca contro gli omosessuali”. Mancuso evidenzia anche il ruolo chiave svolto dalle comunità ebraiche italiane nel portare alla luce la questione dell’Omocausto: “Si è fatto molto lavoro comune, fondamentale per una memoria condivisa, e tanti rabbini si sono pronunciati in merito alle persecuzioni dei gay durante il periodo nazista”.
di MARCO PASQUA via Omosessuali, rom, disabili le vittime senza nome dell’Olocausto – Repubblica.it.