Quaranta anni dopo l’introduzione del divorzio, la legge del 1970 avrebbe bisogno di un incisivo intervento riformatore. Sono infatti maturi i tempi per un ripensamento sui presupposti del divorzio e per l’eliminazione, o quantomeno la riduzione, del termine di tre anni che deve trascorrere fra la pronuncia della separazione e il divorzio. Oggi il periodo di separazione triennale non è certamente un tempo dedicato dai coniugi a tentare la riconciliazione (come il legislatore del 1970 aveva ipotizzato), ma è una anacronistica attesa a cui si sommano i tempi (purtroppo spesso molto lunghi) e i costi di due cause (la separazione e, tre anni dopo, il divorzio).
Nonostante ciò, ogni tentativo per modificare la legge su questo punto è fallito. Tuttavia vi è un altro aspetto in relazione al quale la legge mostra con evidenza i segni del tempo: la disciplina delle conseguenze economiche del divorzio. La norma vigente prevede ancora, come nel 1970 (nonostante una modifica del 1987), che il «coniuge più debole» (generalmente la moglie) abbia diritto a ricevere dall’altro dopo il divorzio un assegno mensile definito «assistenziale». Il divorzio non fa dunque venire meno l’obbligo reciproco di assistenza fra i coniugi. Questa regola oggi non soddisfa più alcuno. Talora scontenta il coniuge più debole che vuole una effettiva compensazione per i sacrifici, spesso enormi, fatti a favore della famiglia e dei figli durante il matrimonio e riceve invece dall’altro un assegno assistenziale mensile che generalmente, lungi dal consentire di mantenere lo stesso tenore di vita matrimoniale, costringe a penose rinunce. Talora scontenta invece il coniuge più forte (generalmente il marito) che non comprende per quale ragione, dopo la fine del matrimonio, deve essere tenuto a versare mensilmente una somma di denaro che egli interpreta come una rendita vitalizia parassitaria. Non si comprende allora che cosa impedisca di adeguare la legge all’evoluzione della nostra società. Si dovrebbe finalmente affermare che, dopo il divorzio, non vi è più alcun obbligo di assistenza reciproca fra gli ex coniugi. Come ormai avviene in quasi tutti gli Stati che ci sono vicini, si dovrebbe riconoscere un adeguato trattamento economico solo come corrispettivo per i sacrifici fatti da un coniuge durante il matrimonio. Un corrispettivo che dovrebbe essere tanto maggiore quanto maggiore è stato l’impegno a favore della famiglia e dei figli. Si eviterebbero così, da un lato, la frustrazione di colui (o più spesso di colei) che, dopo molti anni di rinunce e di sacrifici, ottiene solo una pallida assistenza nella forma di un modesto assegno mensile; d’altro lato, la rabbia che prova colui che, dopo un breve matrimonio magari senza figli, è tenuto a pagare all’altro coniuge un assegno a tempo indeterminato che può protrarsi per una vita intera.
CARLO RIMINI*, La Stampa.it 1 dicembre 2010
* ordinario di diritto privato nell’Università di Milano