Dalle mie parti, molto a sud, la prima domanda che si fa quando non si conosce qualcuno è “ma tu a chi appartieni”, cioè dimmi di chi sei figlio.
La risposta che di solito viene data parte dal nominare il padre o addirittura il nonno: viene dunque passata in rassegna tutta la linea paterna di discendenza per poter appunto dire “a chi si appartiene”, ma non viene affatto nominata la madre, che, avendo sempre un cognome diverso dal resto della famiglia, non è in alcun modo utile ad identificare un’appartenenza sociale.
Allora dovremmo iniziare con il porci una sola, semplice domanda, piccola ma piena di significato: perché non ho il cognome di mia madre?
Picasso è nato in una delle tante nazioni che consentono la trasmissione del cognome materno e ha scelto il cognome della madre. E così è diventato Pablo Picasso: sarebbe stato lo stesso se si fosse chiamato Pablo Ruiz, come il padre? Picasso ha potuto scegliere, io no. E non solo non ho il cognome di mia madre ma non posso nemmeno dare il mio cognome a mio figlio. Perché?
Quando mio figlio è nato gli hanno messo un braccialetto al polso con il suo nome seguito dal mio cognome e nel periodo di interregno dell’ospedale siamo rimasti uniti, in qualche modo ancora attaccati, come se ci fosse una specie di prolungamento sociale del cordone ombelicale.
Poi, una volta usciti dall’ospedale, il mio cognome è sparito ed è arrivato il cognome del padre.
E così adesso se, ad esempio, chiamo il pediatra non basta dire il mio nome e cognome, devo necessariamente dire che sono Daniela G. la madre di Diego M. perché a livello sociale non c’è nulla che mi colleghi a mio figlio, il che fa di me un po’ l’estranea della famiglia.
“Auguri e figli maschi” si diceva un tempo, e purtroppo si continua a dire, in quell’augurio di procreare figli maschi è racchiusa anche una certa dose dell’orgoglio di poter trasmettere il cognome paterno, definendo così una linea di trasmissione patrilineare.
E infatti dando il proprio cognome al figlio il padre lo riconosce come “proprio”: se mater semper certa est, il pater lo diventa invece con l’apposizione del cognome.
Ma che cosa è il cognome? E’ una sorta di cartellino che ci appiccano addosso appena nasciamo, è il simbolo della nostra identità sociale, che rende nota a tutti la nostra l’appartenenza ad una determinata storia familiare.
Se pensiamo che non esiste nel nostro ordinamento una norma che codifichi l’attribuzione del cognome paterno, diventa subito evidente che la questione va affrontata sul piano simbolico. L’attribuzione automatica del cognome del padre è infatti “retaggio di una potestà patriarcale, che affonda le sue radici nel diritto di famiglia romanistico e in una potestà maritale non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza”.
Una secolare consuetudine improntata su un ordine patriarcale discriminante nei confronti delle donne impedisce quindi di riconoscere “il diritto della madre di trasmettere il proprio cognome al figlio e il diritto del figlio di acquisire i segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori e di testimoniare la continuità della sua storia familiare anche con riferimento alla linea materna”.
Chi lo ha detto? Un collettivo femminista? No, sbagliato: è la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 61/2006, a dire che siamo donne e per questo siamo cittadine di serie B, discriminate da un sistema culturale fondato sul patriarcato. Proprio lo stesso sistema di valori alla base della violenza di genere.
Come si coniuga il diritto di uguaglianza con la disciplina del cognome? Semplice: se “tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge”…beh allora le donne lo sono un po’ meno.
Con il cognome si nomina un’assenza, quella della donna: non siamo nominate, non siamo visibili, così come veniamo assorbite da una lingua sessista che scambia il maschile per un finto universale (“tutti gli uomini”) e che non ci comprende e non ci rappresenta, allo stesso modo non siamo nominate nel cartellino che codifica l’esistenza sociale dei nostri figli e delle nostre figlie: il cognome.
Non essere nominate vuol dire non essere presenti, non esserci e sul piano simbolico significa molto, così come il non essere pagate, a parità di lavoro, quanto gli uomini, l’essere poco presenti nei CdA e in genere nelle figure apicali e dirigenziali, il festeggiare come una specie di conquista la presenza nel Governo di 7 donne su 21 ministri, cioè meno della metà.
La questione attiene al piano simbolico, è densa di implicazioni e di ricadute: non nominare la donna equivale in qualche modo a ridurla alla sua funzione procreatrice, esaurita la quale la donna infatti scompare a livello sociale (trovando visibilità solo come “mamma”, con una fitta trama socio-culturale di adempimenti prescritti dal ruolo).
Se la domanda fondamentale che le donne rivolgono alla politica è il comparire del soggetto donna all’interno della sfera pubblica, il luogo della “visibilità” per eccellenza, allora si può dire che spesso la risposta a questa domanda è “no, tu no!”.
Se così è allora iniziamo a nominare il mondo al femminile, ben consapevoli che si tratta di una precisa scelta politica. E facciamolo partendo proprio dall’identità sociale, nominando le donne e ricostruendo una genealogia matriarcale così importante per sapere da dove veniamo, per sapere a chi apparteniamo.
Abbiamo un immenso bisogno di una genealogia di donne in questa società che ci nasconde e che, al tempo stesso, ci insegue, chiedendoci costantemente di aderire ad un modello pervasivo di “madre perfetta”.
Come donna posso trasmettere la vita, ma non il cognome. E’ davvero strana questa cosa e infatti in altre nazioni non è così: in Spagna era tradizionale l’attribuzione al figlio del cognome paterno seguito da quello materno, adesso i genitori possono accordarsi sull’ordine dei cognomi; in Francia i genitori possono scegliere tra i due cognomi oppure darli entrambi; in Germania i genitori possono optare tra la scelta di un cognome “di famiglia” al quale l’altro coniuge può aggiungere il proprio.
Io e il mio compagno abbiamo deciso che nostro figlio avrà anche il mio cognome e per noi è una precisa scelta politica. Per poterlo fare è stato necessario scrivere una istanza in carta bollata al Prefetto, con tanto di motivazione delle ragioni (!) della scelta. E Il Prefetto, paternalisticamente, ci accorderà o meno il suo consenso.
Ma non sarebbe più semplice dare la possibilità ai genitori di scegliere che cognome dare: se quello della madre, se quello del padre o entrambi e, al tempo stesso, dare alle donne la possibilità di ricostruire una genealogia femminile e ai figli e alle figlie la libertà di nominare, nel cartellino della loro identità sociale, anche la madre. Libertà di scelta. O molto più semplicemente libertà. Non sarebbe bello?